I villici

Ci fu un tempo in cui gli scrittori non scrivevano ancora, ma andavano raminghi per le campagne e le valli. Alcuni erano zoppi, altri erano ciechi, altri rappresentavano lo scarto dell’umanità. Sul far della sera capitavano in qualche fienile o eventualmente in una stalla e lì, alla presenza dei villici, davano sfogo alla loro riserva di versi e di prose. I villici li consideravano dei menomati che cercavano qualcuno con cui lamentarsi delle menomazioni. E in effetti la letteratura alle origini era fatta di lamenti e di accuse alla vita: perché ad esempio lo scrittore era invalido o mutilato e non trovava l’amore, o veniva cacciato di casa in quanto dava noia alla vista, o era perseguitato dai cani randagi.
Dunque lo scrittore a quei tempi antichi arrivava tutto sbilenco nel tardo pomeriggio o al tramonto, e i villici già tra di loro vedendolo giungere se ne rallegravano. Lo scrittore a quei tempi spesso era burbero, poco socievole, da non confondere con i mendicanti, melliflui e queruli, che si fingevano a volte scrittori, ma non avevano in realtà nessuna vera disgrazia. Qualche imperfezione, qualche dito in meno, ma voglia soprattutto di soldi senza far niente; questo era il medicante! Un impostore.
Lo scrittore dunque arrivava lento e impolverato e sedeva davanti alla stalla, dove mangiava la zuppa, se gliela davano, o la polenta, o il pane cotto, e già qui cominciava a lamentarsi a bassa voce, ad esempio della strada insidiosa, di un cane che lo aveva morso nell’osso, di una stampella rubata dai ladri. Era un lamento ancora leggero, tra una cucchiaiata e l’altra, senza intenti patetici, ma con l’accento della verità cruda. Ecco allora che all’accendersi delle prime stelle nel cielo turchino, quando cessavano tutti i lavori del giorno e nella campagna calava una pace incantata, lo scrittore cominciava dei lamenti più vasti, non solo sulla sua spina dorsale, sullo sterno, sul suo rachitismo, sulle infezioni veneree, sul piede caprino, sulla foruncolosi, la lebbra bianca, la poliomielite, i denti persi, il cimurro, la lussazione dell’anca, il tifo esantematico che l’affliggeva, l’asma, e così di seguito, mentre si raccoglievano i villici dalle case adiacenti e dalle case lontane. Quando la sera era calata e si sentiva ad esempio tutto il profumo del mese di maggio e una ragazza ben pettinata e lavata gli portava la fiaschetta di vino, lo scrittore allora, dopo averne bevuto e fiutato l’aria dolce della ragazza, estendeva i lamenti alla sorte, alla natura biologica; diceva: non fossi mai nato! A cosa serve la vita? A cosa serve l’estate, i prati, la riproduzione sessuata? Aveva la voce straziante che sembrava un violino. E allora si lamentava sempre più in vasta estensione, mentre i villici gli facevano cerchio; si lamentava del sole inutile, delle stelle senza un significato, della materia distribuita così raramente nel cosmo, delle molecole in decadimento, del secondo principio della termodinamica, dell’universo ormai prossimo allo zero assoluto, che lui aveva sempre avvertito, fin da bambino; perciò a che serve, diceva, anche il vino, il fieno, la stalla, la coltivazione dei campi?
I villici stavano fermi, in silenzio, senza tuttavia capire bene e a fondo. Le ragazze dopo un po’ sgusciavano tra il buio degli alberi e le si sentiva bisbigliare e ridere coi giovanotti. È a questo punto che lo scrittore ammutoliva e si ritirava da solo tra il fieno.
Essendosi in seguito i villici meccanizzati ed essendo quindi le stalle divenute dei luoghi zootecnici e inospitali, come pure i fienili, è successo che gli scrittori autentici non si siano più distinti dai falsi storpi e dai mendicanti. Tuttavia ci fu uno, poi imitato da altri, che non avendo più stalle e villici su cui sfogarsi, prese a sfogarsi sopra la carta, creando così una sottorazza di scrittori con la mania esclusiva di scrivere; costoro li si può ritrovare ancor oggi chiusi in casa perennemente sotto la luce artificiale, dove perdono in poco tempo la sanità cerebrale e divengono egocentrici e pallidi come vermi intestinali, senza motilità, senza una vita d’affetti, e soprattutto ruffiani, carogne e falsi. Si dice anche che i tempi antichi non siano mai esistiti, se non negli scritti malsani di tali scrittori, e che non siano mai esistiti né le stalle, né i fienili, né i villici.

da Gli scrittori inutili
di Ermanno Cavazzoni
(Feltrinelli, 2002)