L’hai detto

Barcolliamo fuori dal cinema e decidiamo che popcorn, Coca e caramelle non erano abbastanza. Attraversiamo la strada diretti in pasticceria, dove compriamo una scatola di biscotti. Perry li prende ricoperti di cioccolata, io con gli zuccherini colorati. Mangiamo i biscotti al bancone e parliamo. Senza dubbio Perry è bravo a parlare. Sembra un avvocato dinanzi alla corte suprema. Poi, interrompendo una frase di quindici minuti, si rivolge al tipo dietro al bancone e gli domanda:
«Questo posto è aperto ventiquattr’ore al giorno?».
«Sì», risponde quello.
«Sette giorni alla settimana?».
«Esatto».
«Trecentosessantacinque giorni all’anno?».
«Proprio così».
«Allora perché ci sono delle serrature sulla porta?».
Ci giriamo tutti a guardare. Che domanda acuta! Inizio a ridere così forte che devo sputare il biscotto. Gli zuccherini mi cadono dalla bocca come coriandoli. Potrebbe essere la cosa più buffa, più intelligente che sia mai stata detta. Sicuramente la cosa più buffa e più intelligente che sia mai stata detta in questa particolare pasticceria. Perfino il tipo dei biscotti è costretto a sorridere e ad ammettere: «Ragazzo, è davvero un mistero».
«La vita non è forse così?», dice Perry. «Piena di serrature assurde e altre cose inspiegabili?».
L’hai detto.

da Open, la mia storia
di Andre Agassi

BBOOOM

Mia mamma, in questo periodo, da quando fa caldo, è incazzata nera, perché abbiamo due cani davanti a casa che abbaiano fisso. Sono ignoranti come i muri, quei cani. Abbaiano nel vuoto, e vanno avanti per delle ore, la sera, la notte. Non si riesce a far niente, leggere, guardare un film, te lo puoi scordare. E poi la mattina, alle sette, di nuovo, incominciano. I padroni di quei due cani sono testimoni di Geova. Vacci a parlare, coi testimoni di Geova…
Mia mamma ha un piano: un giorno vuole caricarseli in macchina, quei due cani, e portarli in campagna, e scaricarli lì, e andar via. Io le ho detto che la aiuto, se lo fa, sono d’accordissimo. È ora di finirla. Ammazzarli con le polpette avvelenate sarebbe il piano B, ma poi soffrono, non va bene. Anch’io soffro, certi giorni, come tutti, ma non abbaio e non intaso le orecchie a nessuno, per strada.
I cani li odio, io, mi fanno schifo. Li odio come la street art, come le cose che non voglio vedere, perché non sono venuto a cercarle, e invece la gente te le vuol sbattere in faccia a tutti i costi, su internet, o in giro, mentre cammini. In questi anni la gente si è invasata, proprio. Tutti hanno una gran voglia, un gran bisogno di farsi vedere, e di farti vedere che sanno fare delle cose, e che esistono, insomma, ma sotto non hanno un cazzo da dire, a me sembra. Un po’ come i cani. Abbaiano abbaiano, e non si capisce niente.
Ieri sera mi son messo a urlare dal terrazzo, mi sono sgolato, col testimone di Geova, là, era in camicia, e aveva un cappello in testa, lo sceriffo, gli ho urlato di metterseli in casa, i suoi due cani, che han rotto i coglioni, erano tre ore che abbaiavano di continuo. Lui ha detto: «Eh?», e io ho ripetuto tutto, anche “coglioni” ho ripetuto, e lui li ha fatti entrare nel garage.
La mia mamma sarebbe andata fiera di me, peccato che era uscita con le sue amiche. Per qualche giorno ci sarà una tregua tra noi e i cani, e tra noi e i testimoni di Geova. Saremo in pace, con Dio e con Geova. Ci sarà modo di parlare, in casa, di leggere, di vedere un film.
Intanto ho comprato i petardi, ieri, dal tabaccaio, per sicurezza. I Raudi. Quelli tuonano. Se sento un solo rumorino, uno solo, giuro, uscire dalle bocche di quei cani, ne accendo sette, di Raudi, e glieli tiro addosso, contro il garage. Li bombardo di Raudi. A mia mamma son sempre piaciuti i botti, quelli forti, negli stadi, che ti sconquassano la testa.
E se i testimoni di Geova escono e si mettono a urlare, a indignarsi, ad abbaiare anche loro, a parlar di civiltà e tutte quelle stronzate da progressisti, gliene tiro altri sette, gliene tiro. BBOOOM.
Dopo vediamo chi abbaia più forte, vediamo.

Ragazzini per strada

È un po’ di tempo che mi piace stare nei parchi, ovunque mi trovi. Adesso che sono tornato dai miei, per un po’, c’è il mio amico cinesino che tutte le volte che passo dal parco, lui è lì, e urla e mi corre incontro con le mani in alto. Ride sempre, anche se non ha i denti davanti. Parliamo molto. In un anno ha imparato l’italiano, ma a volte proprio non lo capisco, lui ripete e ripete, io non capisco, e lui ci rinuncia e cambia discorso.
Ha compiuto 7 anni. Secondo lui io ne ho 8, non di più. Vuole sempre che mi metto a leggere sulla panchina vicino allo scivolo, così lui intanto fa lo scivolo, e poi l’altalena. Io faccio come vuole lui, ma poi non gli basta, vuole che gli spingo l’altalena e che salgo sullo scivolo in piedi. Gli piace quando lo faccio, perché lo scivolo è di ferro e rimbomba sotto i miei piedi.
«Basta lege», dice. Vuol dire basta leggere.
«Spige!». Vuol dire spingi l’altalena.
Io spingo forte e lui si caga in mano. L’altro ieri si è rasato i capelli. La scuola è finita, quindi è contento. Mi chiede sempre che scuola faccio io, perché mi porto lo zaino dappertutto. «Dov’è la tua scuola?». Io gli dico che è lontana. Lui dice: «Lontana come la Cina?». Io dico: «Più o meno, sì, come la Cina».
Due cose gli ho insegnato. Uno: le scoregge con le mani, ma ancora non gli vengono, però si applica. Sono sicuro che un giorno gli riusciranno alla perfezione. Due: il gioco del dito rotto, ma è lungo da spiegare, metto la foto. Quello già gli viene.
Oltre che al parco, lo incontro quando esco di casa, e lui è lì in fondo alle scale, esce per primo e mi chiude il portone in faccia. Oppure lo rivedo quando torno, la sera, che mi spara col Superliquidator dal terrazzo.
Gioca anche coi bambini italiani, tutti lì coi genitori… Lui invece è sempre da solo. Non so, vi siete accorti che di bambini italiani, in giro da soli, non ce ne sono più? Ci sono solo i cinesini, i marocchini, solo i bambini stranieri girano da soli. I bambini italiani stanno sempre con le mamme e i babbi a rimorchio, le babysitter, i nonni. Un mortorio, una roba invivibile. C’è una canzone di Jovanotti, che dice benissimo questa cosa, si chiama Ragazzini per strada, bellissima, e tutte le volte che l’ascolto mi viene in mente lui, il cinesino, e mi vengo in mente anch’io.
Un giorno ci siamo messi a inseguire una farfalla, e quando le siamo arrivati vicini, lui ha detto che non si poteva toccare, perché le farfalle bisogna lasciare che volino. Gliel’aveva insegnato sua mamma, ha detto.
Proprio sul più bello, adesso che siamo amici, dice che domani va in Cina, lui. «Ma come vai in Cina?», gli ho detto. Lui ha detto che ci va per 21 giorni, e poi per 5 giorni, non ho capito. Io gli ho detto che dopo le farfalle le uccido tutte, se lui va via. Lui si è messo a ridere. Avevo l’Autan in tasca e gliel’ho spruzzato sulla testa rasata, e lui si è sbatacchiato la faccia, poi ha unito le mani, se le è messe vicine all’orecchio e le ha schiacciate come si deve, ed è uscita una scoreggina, minuscola, ma ottima. La sua prima scoreggia con le mani.
Probabilmente sta insegnando il trucco ai suoi parenti, là, in Cina, adesso. Farà scalpore. Io invece son rimasto qui, al parco, con le mani in mano, non ho voglia di niente. Quando non c’è nessuno salgo sullo scivolo, vado un po’ sull’altalena, più forte che posso, e ogni tanto faccio un giro vicino alle siepi, in basso, e cerco le farfalle, ma possibile? Sono sparite anche quelle.

Scompensi del Chakra

Stamattina mi sono svegliato male male male, e la prima cosa che ho fatto, la prima, è stata andare in salotto, al mio tavolo, mio per l’ultimo giorno, e buttare nel bidone le monetine che avevo accumulato lì da mesi. Le ho fatte scivolare dentro il bidone con la mano, come si fa con le briciole, e le monetine, cadendo, sono risuonate forte. Sembrava grandine. Mi è venuta una gran risata, da sotto il petto, una roba disperata, proprio, che mi ha preso tutta la faccia, e mi son ritrovato così, col bidone in mano, nel silenzio.
Dovevo fare le valigie. Una valigia e cinque borse. Svuotare la casa. Ho portato via anche la lampada di sale che avevo comprato a gennaio, quand’era freddo e cercavo una cosa calda da mettere nel buio. Ho raccolto i miei panni, ho lavato i piatti di ieri, ho buttato tutto nelle borse senza mai fermarmi. Ma verso la fine, purtroppo, mentre controllavo di non aver lasciato niente, ho fatto un giro per casa.
Sotto il mio petto quella risata non c’era più, anzi, adesso c’era un vuoto enorme. Allora mi son seduto sulla sedia, al mio tavolo, dove mi metto sempre a scrivere, da cinque mesi, e ho pensato che non avrei più scritto, su quella sedia e su quel tavolo, mai più. Poi sono andato in bagno e ho pisciato, e ho pensato che non avrei più pisciato in quel bagno. Poi ho guardato il mio letto e ho pensato che non avrei più dormito in quel letto. Poi ho preso su tutto e sono uscito dalla porta con la mia bicicletta.
Ma sono rientrato in casa, dovevo lasciare le chiavi. Le ho lasciate sul mio tavolo. Vuoto. Non era mai stato così vuoto. Fino a prima c’erano tutti i miei libri, lì, le gallette di mais, l’Uliveto, la scatolina con lo zenzero, le mandorle, e le monetine. Vuoto.
Ho aperto il frigo, ed era vuoto anche quello, benissimo, tranne una cosa, però: in basso, nell’ultimo ripiano, in fondo, c’erano gli gnocchi di patate della Pam. Li avevo messi lì apposta, per dimenticarmeli, cazzo, perché volevo che restassero lì, quando sarei andato via, gli gnocchi. Ho chiuso il frigo con cattiveria. Sono andato alla finestra per respirare, e ho guardato il bar che ho sotto casa, che non lo rivedrò più, e ho guardato proprio la finestra, il vetro, che è ancora pieno di bacini stampati, che quest’inverno mi piaceva alitarci e baciarlo, ne facevo uno al giorno, uno per tutti i giorni, e stavo meglio, senza buchi dentro. Ero tutt’uno, io, qui dentro.
Invece questo buco sotto il petto, adesso, è pesantissimo, e non mi passa. L’avevo avuto a gennaio, sempre, boh, ma poi l’avevo riempito, avevo comprato la lampada di sale, facevo yoga, davo i baci al vetro, e mi ero dimenticato di lui.
Allora, prima di partire in bici, con tutte le borse in spalla, ho telefonato a una mia amica, una che mi aiuta, si chiama Violante, ci aiutiamo, lei ne sa in generale, sia di me che del resto, così le ho chiesto come si fa a riempire questo buco. Lei mi ha detto che il buco è colpa degli SCOMPENSI DEL CHAKRA che ho adesso. Mi ha spiegato che ci sono sia scompensi che lacerazioni dell’aura, si sentono anche al tatto, che lo yoga aiuta e che esistono delle tecniche precise, spiegate in certi libri, ma lei pensa che per queste cose servano dei maestri, o PERSONE SENSATE.
Su sé stessa, dice, quando le capita il buco, i libri non funzionano mica, funziona solo la risonanza, cioè stare con qualcuno di sano, prendere la sua vibrazione e via. Quando si blocca l’energia o c’è un calo, mi ha detto, si creano rispettivamente una depressione e una lacerazione. Buco nell’aura = epistassi energetica.
«Più che altro, credo che sia un accorgersi che non è tutto come crediamo noi», mi ha detto.
Ci ho pensato su. Probabilmente si riferiva agli gnocchi. La verità è che io valgo meno di quegli gnocchi, chiusi in frigo (marcite lì dentro), e degli gnocchi in generale, ‘fanculo.
Alla fine ho lasciato la mia casa, e non ci tornerò più. Siamo io e il buco, adesso. È lui che abita dentro di me, e sarò io che fra qualche tempo, se trovo il modo, magari, ci sarà da patire, lo costringerò a prender su le sue cose, a far le valigie e a uscire da questo petto, che io non sono la casa di nessuno.
Fino ad allora, non si sa. Non le avevo contate, le monetine. Non le avevo contate.

Acqua e vino

Quando mio babbo ha detto:
«Se non mi sposavo con te, io non mi sposavo più», la mia mamma l’ha guardato, e non ha detto niente, ma sotto sotto… Poi si è decisa a dire:
«Cosa vorresti dire?», e mio babbo, in tutta franchezza, le ha risposto:
«Avevo già 32 anni…».
E lei:
«Cosa avresti fatto?».
«Sarei andato all’estero, sarei andato», ha detto mio babbo.
Lei non le digerisce frasi così. La vedi, che si sente mancare; come se tutto il passato che ha nel cervello cominciasse a tremare. Negli occhi le si accende una vendetta, che poi sfuma subito, mentre sistema un tovagliolo o si alza per lavare un piatto, cambiare canale.
Invece mio babbo quel pensiero lo tiene lì, sulla punta della fronte, e mastica piano, occhi sul bordo del piatto, perché più in là c’è lei, le mani sulla tovaglia mai oltre il confine, vicino alle bottiglie, acqua e vino, e chissà sotto, come son messi coi piedi. Di solito mia mamma accavalla le gambe, il babbo invece le slarga, e poi fa ballare le ginocchia.
In tutto questo l’estero rimane lontano. Come anche il passato. Come i se.
Direi che l’estero, per fortuna, rimane all’estero.

Pane e vino

Si era stesa sopra un ramo dell’albero a non far niente. Aveva appoggiato la testa su un braccio, e la mano pendeva giù dal ramo. Sotto la sua mano passava il vento, e sotto il vento il grano era piegato verso i sassi bianchi, uno qua e uno là. Bianchi come la sua mano. Vicino ai sassi erano cresciuti dei fiori rossi, come se vicino al pane ci debba sempre essere il vino. Non solo: c’erano anche un bossolo da fucile e la bustina di un integratore. Aminoacidi ramificati. A lei non interessava, il ramo le indicava di guardare il sole, dritto laggiù, ma aveva già chiuso gli occhi. Il vento non riusciva a spostarla, la sua mano. Non c’era sangue lì dentro, solo ossa e aria. Era vuota. All’ombra.
Da qualche parte, nel bosco, c’era un cacciatore con un fucile in mano, che se fosse passato di lì, di sicuro si sarebbe fermato a guardarla dormire.