Un messaggio

Violante mi ha scritto un messaggio, dove diceva che stava abbaiando. Io non le rispondevo, lei mi scriveva che sicuramente stavo facendo qualcosa di losco. «Non sei sufficientemente reattivo». Dopo le ho risposto, le ho chiesto se la sentiva qualcuno, mentre abbaiava. Aveva detto di no. Ero più tranquillo. Ero tornato a dormire.

Ora solare

Ho fatto un sogno dove ero in bagno, allo specchio, che mi lavavo i denti con una spazzola per capelli. Era una cosa normale per me, ma nel sogno, lì allo specchio, mi ero accorto che quella spazzola era una spazzola e non uno spazzolino, e che i denti bisognava lavarli con lo spazzolino. Quando mi sono svegliato, mi sono chiesto se io, insomma, non è che sto sbagliando qualcosa, nella mia vita, e non me ne accorgo?

Anima sudata

È inutile quindi che mi vengano a parlare di questi scrittorucoli, di questi romanzi in finta pelle – questo sono –, questi romanzi che magari vincono lo Strega, ma che non sono sangue e carne. È solo finta pelle! Ti potrei fare tanti esempi di romanzi e scrittori del genere. Una di questi è la moglie di quell’attore, la Margaret Mazzantini. Dico, una che ti parla di ‘anima sudata’ in un libro. Lo tengo a mente per fare un esempio agli amici, durante le conversazioni, e ridere. Ma nemmeno Henry Miller sotto acidi avrebbe potuto inventarsi una coglionata simile. Nemmeno Dalì in uno dei suoi momenti più grigi, quando sua moglie gli aveva dato un sacco di botte e si era fatta inculare da tutti i surrealisti. È terribile! È di un kitsch, quando ti lasci andare a queste trovate, che possono piacere giusto a un pubblico che non legge. E secondo lei sarebbe poetica! Che poeticità del cazzo! Se lo scrivessi in una mia poesia, i miei amici e soprattutto i miei nemici mi sparerebbero a vista. E sai che ti dico? Farebbero bene!”.

dall’intervista di Matteo Fais a Franz Krauspenhaar, Mi sono rotto i coglioni della letteratura, Pangea, 2018
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Adesso

Ieri sono andato a vedere il Cesena, allo stadio, che era un bel po’ che non ci andavo. Adesso gioca in serie D, perché è fallita la società. Mi sono seduto dove mi sedevo sempre: due posti più a destra c’era quello coi pistacchi, sempre lui, e una fila dietro il vecchio con suo nipote, che quando Defrel giocava da noi, gli urlava: «Defrel, dài, scarnazza!». Mi aspettavo di trovare una certa nostalgia, della serie A, invece c’era la stessa aria, tutti scaramanticamente ai soliti posti, e mi sono sentito bene, in mezzo ai cesenati, col loro dialetto. Il vecchio, nella fila dietro, urlava: «Valeri dài, scarnazza!». La serie D è giù quattro leghe, dalla A, ma è meglio adesso, rispetto a prima. Non capita mai, di solito, che qualcosa sia meglio adesso, rispetto a prima. È bello.

Etica, estetica

All’inizio ero esaltata all’idea di leggere Controcorrente, perché Gary disse che parlava di un uomo che decideva di vivere secondo principî estetici anziché morali, ed era una cosa che mi aveva detto recentemente Svetlana: che vivevo secondo principî estetici, mentre lei, nutrita com’era di filosofia occidentale, era condannata a vivere basandosi su noiosissimi principî etici. A me non era mai venuto in mente di considerare estetica ed etica come due cose opposte. Pensavo che l’etica fosse estetica. «Etica» significava la regola d’oro, che di base era una regola estetica. Ecco perché era chiamata così, un po’ come la sezione aurea nell’arte.
– Non è per questo che non si imbroglia e non si ruba: perché è brutto? – dissi. Svetlana disse che non aveva mai conosciuto una persona con una sensibilità estetica così forte.

di Elif Batuman
da L’idiota
(Einaudi, 2018)

Uscirne vivi

Possibile che mia madre non l’abbia mai saputo? Che non sapesse che i Netterfield avevano abitato lì e che perciò la vecchia stava guardando dalle finestre di quelle che era stata casa sua?
È possibile. In vecchiaia sono diventata curiosa quanto basta per accollarmi la noia di controllare documenti e dati, e così ho scoperto che da quando i Netterfield vendettero a quando i miei si trasferirono parecchie famiglie si erano avvicendate in quella casa. Viene da domandarsi come mai l’avessero messa in vendita mentre la proprietaria aveva ancora qualche anno da vivere. Che fosse rimasta vedova, a corto di finanze? Chi lo sa. E chi era poi venuto a portarsela via, secondo quanto aveva detto mia madre? Magari la figlia, la stessa che scriveva poesie e risiedeva in Oregon. Forse era quella figlia, ormai adulta e lontana, che la vecchia cercava nella mia carrozzina. L’attimo dopo che mia madre si era precipitata a prendermi in braccio, perché ne uscissi viva, come diceva lei.
La figlia non abitava lontano da dove rimasi per un certo periodo della mia vita adulta. Avrei voluto scriverle, persino farle visita. Se non fossi stata così presa dalla mia giovane famiglia e dalla mia scrittura invariabilmente inadeguata. Ma la persona con cui al tempo avrei davvero voluto parlare era mia madre, ormai non più raggiungibile.

Non tornai a casa per la sua ultima malattia e nemmeno per il funerale. Avevo due bambini piccoli e non avrei saputo a chi lasciarli, a Vancouver. Avremmo fatto anche fatica a spendere i soldi del viaggio, e mio marito era il tipo che sdegna le formalità, ma perché scaricare la colpa su di lui? La pensavo così anch’io. Di certe cose diciamo che non si possono perdonare, o che non ce le perdoneremo mai. E invece poi lo facciamo, lo facciamo di continuo.

da Uscirne vivi
di Alice Munro
(Einaudi, 2014)

La vecchiaia

«Poi ognuno la pensa come vuole, faccio per dire, ma per me tu sbagli». «Claudia, sta’ buonina, non entriamo adesso in questi discorsi, che mi vien fastidio». «No, siccome l’hai detto, che vuoi vivere fino alla vecchiaia, non lo vedi tuo babbo come si è ridotto?». «Come si è ridotto, Claudia…». «Sono andata lì, non mi riconosce neanche più, chiede alla tua mamma, “Ma chi è quella bella donna?” “La Claudia!” Chi vuoi che sia. Poi mi strizza l’occhio e allunga le mani». «Non è detto che io diventi come mio babbo». «Che discorsi, ma sarà pur meglio morire quando ancora stai bene, senza malattie, così si lascia un bel ricordo invece che tirare a campare sulle spalle degli altri». «Claudia, le spalle degli altri, è la vecchiaia». «È una schifezza, io non la voglio la vecchiaia, tu sì, l’hai detto!». «Io ho detto che non voglio morire, che è diverso. Lo posso dire, che non voglio morire, o non lo posso neanche dire?». «Puoi dir quello che vuoi, ognuno la vede a modo suo, ma c’è la vecchiaia in mezzo, non si scappa da lì». «Sta’ buonina, Claudia, che dopo la vecchiaia si ferma, a un certo punto». «Va là, me lo dirai tra dieci anni se si ferma». «Ma quando te lo dico, che vuoi morire prima te?». «Allora muori prima te, fai presto, che dopo te lo vengo a dire io».

Scappati di casa

Poi ho visto una, in televisione, diceva che quelli del governo “sono degli scappati di casa”. Era col rossetto, tinta chiara come va adesso, usava ridere. Non era sua intenzione, di sicuro, ma dire a qualcuno “sei uno scappato di casa”, lo reputo un complimento. Sarà che c’è tutta una letteratura sugli scappati di casa. I rincoglioniti sono ben altri, nella totalità. Poi ho spento la televisione. Buonanotte.

La piada con la merda

C’erano due uomini al bar. Uno ha detto: «Vieni Andrea, è il nostro quel tavolino, siediti». Andrea si è seduto. «Oh, te ne sei accorto? È già finita l’estate, era giugno l’altro ieri, adesso la sera fa un freddo della madonna», gli ha detto l’altro. Andrea si è acceso una sigaretta. «Andrea, tu la vuoi la piada con la merda?». Andrea ha risposto: «Ah, col mal di gola non è indicato». L’altro ha detto: «Santarcangelo è diventato un porto di mare, pieno di terroni, li senti?». Andrea ha detto: «È così il mondo». E l’altro: «Non li vuol nessuno, allora vengono tutti qui, alla faccia degli anni ’90…». Andrea ha detto: «Altri tempi».
Poi è arrivata una donna col cane e l’altro le ha chiesto: «Scusi, di che razza è questo?». «Chihuahua», gli ha detto la donna, e subito gli ha dato le spalle. Lui ha detto: «Buona la piada con la merda, eh». «Saporita», ha detto Andrea. E lui ha detto: «Andiamo via, tutti terroni qui. La piada con la merda!».

I villici

Ci fu un tempo in cui gli scrittori non scrivevano ancora, ma andavano raminghi per le campagne e le valli. Alcuni erano zoppi, altri erano ciechi, altri rappresentavano lo scarto dell’umanità. Sul far della sera capitavano in qualche fienile o eventualmente in una stalla e lì, alla presenza dei villici, davano sfogo alla loro riserva di versi e di prose. I villici li consideravano dei menomati che cercavano qualcuno con cui lamentarsi delle menomazioni. E in effetti la letteratura alle origini era fatta di lamenti e di accuse alla vita: perché ad esempio lo scrittore era invalido o mutilato e non trovava l’amore, o veniva cacciato di casa in quanto dava noia alla vista, o era perseguitato dai cani randagi.
Dunque lo scrittore a quei tempi antichi arrivava tutto sbilenco nel tardo pomeriggio o al tramonto, e i villici già tra di loro vedendolo giungere se ne rallegravano. Lo scrittore a quei tempi spesso era burbero, poco socievole, da non confondere con i mendicanti, melliflui e queruli, che si fingevano a volte scrittori, ma non avevano in realtà nessuna vera disgrazia. Qualche imperfezione, qualche dito in meno, ma voglia soprattutto di soldi senza far niente; questo era il medicante! Un impostore.
Lo scrittore dunque arrivava lento e impolverato e sedeva davanti alla stalla, dove mangiava la zuppa, se gliela davano, o la polenta, o il pane cotto, e già qui cominciava a lamentarsi a bassa voce, ad esempio della strada insidiosa, di un cane che lo aveva morso nell’osso, di una stampella rubata dai ladri. Era un lamento ancora leggero, tra una cucchiaiata e l’altra, senza intenti patetici, ma con l’accento della verità cruda. Ecco allora che all’accendersi delle prime stelle nel cielo turchino, quando cessavano tutti i lavori del giorno e nella campagna calava una pace incantata, lo scrittore cominciava dei lamenti più vasti, non solo sulla sua spina dorsale, sullo sterno, sul suo rachitismo, sulle infezioni veneree, sul piede caprino, sulla foruncolosi, la lebbra bianca, la poliomielite, i denti persi, il cimurro, la lussazione dell’anca, il tifo esantematico che l’affliggeva, l’asma, e così di seguito, mentre si raccoglievano i villici dalle case adiacenti e dalle case lontane. Quando la sera era calata e si sentiva ad esempio tutto il profumo del mese di maggio e una ragazza ben pettinata e lavata gli portava la fiaschetta di vino, lo scrittore allora, dopo averne bevuto e fiutato l’aria dolce della ragazza, estendeva i lamenti alla sorte, alla natura biologica; diceva: non fossi mai nato! A cosa serve la vita? A cosa serve l’estate, i prati, la riproduzione sessuata? Aveva la voce straziante che sembrava un violino. E allora si lamentava sempre più in vasta estensione, mentre i villici gli facevano cerchio; si lamentava del sole inutile, delle stelle senza un significato, della materia distribuita così raramente nel cosmo, delle molecole in decadimento, del secondo principio della termodinamica, dell’universo ormai prossimo allo zero assoluto, che lui aveva sempre avvertito, fin da bambino; perciò a che serve, diceva, anche il vino, il fieno, la stalla, la coltivazione dei campi?
I villici stavano fermi, in silenzio, senza tuttavia capire bene e a fondo. Le ragazze dopo un po’ sgusciavano tra il buio degli alberi e le si sentiva bisbigliare e ridere coi giovanotti. È a questo punto che lo scrittore ammutoliva e si ritirava da solo tra il fieno.
Essendosi in seguito i villici meccanizzati ed essendo quindi le stalle divenute dei luoghi zootecnici e inospitali, come pure i fienili, è successo che gli scrittori autentici non si siano più distinti dai falsi storpi e dai mendicanti. Tuttavia ci fu uno, poi imitato da altri, che non avendo più stalle e villici su cui sfogarsi, prese a sfogarsi sopra la carta, creando così una sottorazza di scrittori con la mania esclusiva di scrivere; costoro li si può ritrovare ancor oggi chiusi in casa perennemente sotto la luce artificiale, dove perdono in poco tempo la sanità cerebrale e divengono egocentrici e pallidi come vermi intestinali, senza motilità, senza una vita d’affetti, e soprattutto ruffiani, carogne e falsi. Si dice anche che i tempi antichi non siano mai esistiti, se non negli scritti malsani di tali scrittori, e che non siano mai esistiti né le stalle, né i fienili, né i villici.

da Gli scrittori inutili
di Ermanno Cavazzoni
(Feltrinelli, 2002)