Il cervello

Perché il cervello, non è che te puoi indirizzarlo dove vuoi te, il cervello, che te gli dici Pensa delle cose belle, al cervello, e lui il cervello comincia a pensare a delle cose che ti fanno star bene no, non funziona così. Era bello, se funzionava così, era comodo.
Il cervello, se te non hai una storia parallela che lo guida fuori dai suoi pensieri, al cervello, lui il cervello ci va a ricadere, nei suoi pensieri.

da Grandi ustionati
di Paolo Nori
(Marcos y Marcos, 2012)

Ma cosa diavolo è l’acqua?

Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?” I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede “Ma cosa diavolo è l’acqua?”

dal Discorso per la cerimonia delle lauree al Kenyon college, 21 maggio 2005
di David Foster Wallace
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Tu sei uno zero

6 novembre

Il caposezione è andato fuori di testa. Quando sono arrivato al dipartimento, mi ha fatto andare da lui e ha cominciato a dirmi così: “Allora, ascoltami, per cortesia, cosa stai facendo?” “In che senso? Non sto facendo niente” ho risposto io. “Ascolta, pensaci bene. Hai già più di quarant’anni, è ora di mettere la testa a posto. Cosa ti sei immaginato? Pensi che non le conosca, tutte le tue sciocchezze? Corteggi la figlia del direttore! Ma guardati, ma pensaci un attimo, ma cosa sei, tu? Tu sei uno zero, e basta. Non hai un centesimo bucato. Guardati un attimo la faccia allo specchio, come hai fatto a immaginarti una cosa del genere?” Che ti venga una accidente, lui ha una faccia che sembra l’ampolla di un farmacista, in testa ha un ricciolo, arricciato come un ciuffetto, e se lo pettina verso sinistra, e se lo impomata a rosetta, e allora pensa di essere il solo che può far quello che vuole. Capisco, capisco perché è arrabbiato con me. Mi invidia; ha visto, forse, i segni di benevolenza che mi vengono riservati. Be’, io gli sputo in faccia. Sai che roba, essere consigliere di corte! Si è attaccato una catena d’oro all’orologio, ordina gli stivali da trenta rubli, che gli venga un accidente. Son forse un intellettuale, son figlio di un sarto o di un sottufficiale? Io sono un nobile. Posso far carriera anch’io. Ho solo quarantadue anni. È un’età che, a dir le cose come stanno, si è appena cominciato, a lavorare. Aspetta, amico! Saremo colonnelli anche noi, e forse, se dio vuole, anche qualcosa in più. Ci faremo una reputazione anche migliore della tua. Cosa ti sei messo in testa, che, a parte te, non ci sia nessuno come si deve? Dammi un frac di Rutsch, alla moda, lascia che mi faccia anch’io come te, il nodo alla cravatta, e non saresti neanche degno di allacciarmi le scarpe. Non ho i mezzi, ecco il problema.

da Memorie di un pazzo
di Nikolaj Gogol’
(1835)

Narrazione

– Da un po’ di tempo ormai mi rendo conto che c’è una tensione nel mio rapporto con te, – disse Svetlana. – E penso che la ragione sia questa: tutte e due costruiamo una narrazione sulla nostra vita. Forse è per questo che abbiamo deciso di non essere coinquiline l’anno prossimo. E forse è sempre per questo che siamo così attratte l’una dall’altra.
– Tutti costruiscono una narrazione sulla loro vita.
– Ma in misure diverse. Pensa alle mie coinquiline. Fern, per esempio. Non dico che non abbia una vita interiore o che non pensi al passato o non faccia progetti per il futuro. Ma lei non rielabora compulsivamente tutto quello che le succede per trasformarlo in una storia. È lei a far parte della mia storia, non sono io a far parte della sua. Questo crea una disuguaglianza fra me e Fern, ma dà anche una certa stabilità alla nostra relazione, una certa sicurezza. Ognuna delle due ha un ruolo diverso. È come un tacito accordo. Con te invece c’è più instabilità e più tensione, perché so che stai costruendo una storia anche tu, e che nella tua storia io sono solo un personaggio.
– Non lo so, – dissi. – Continuo a pensare che tutti vivano la loro vita come una narrazione. Se non avessimo in testa una specie di storia con un suo svolgimento, come faremmo a sapere chi siamo quando ci svegliamo la mattina?
– Quella è una definizione molto vaga di narrazione. È come dire che la narrazione è solo memoria più causalità. Ma per noi due la narrazione ha anche un’estetica.
– Ma non credo che sia per via della nostra personalità, – dissi. – Non dipende più da quanti soldi hanno i nostri genitori? Io e te possiamo permetterci di inseguire una certa narrazione solo perché è interessante. Tu sei potuta andare a Belgrado a fare i conti con la tua vita prima della guerra, e io sono potuta andare in Ungheria a conoscere meglio Ivan. Ma Fern durante l’estate deve lavorare.
Anche tu stai lavorando.
– Ma il biglietto aereo me l’ha pagato mia madre. Non è che devo fare dei soldi, tipo mandarli alla mia famiglia.
– Secondo me questo non c’entra. Fern è solo un esempio. I genitori di Valerie sono ingegneri, lei non deve lavorare, ma lei è comunque più simile a Fern che a noi.
– Non lo so, – dissi. – Mi sembra un modo di vedere le cose un po’ elitista.
– Non pensi che sia ipocrita, proprio da parte tua, sostenere di non essere elitista? – disse Svetlana. – Se pensi davvero a quella che sei, e ai tuoi valori?

di Elif Batuman
da L’idiota
(Einaudi, 2018)

Anima sudata

È inutile quindi che mi vengano a parlare di questi scrittorucoli, di questi romanzi in finta pelle – questo sono –, questi romanzi che magari vincono lo Strega, ma che non sono sangue e carne. È solo finta pelle! Ti potrei fare tanti esempi di romanzi e scrittori del genere. Una di questi è la moglie di quell’attore, la Margaret Mazzantini. Dico, una che ti parla di ‘anima sudata’ in un libro. Lo tengo a mente per fare un esempio agli amici, durante le conversazioni, e ridere. Ma nemmeno Henry Miller sotto acidi avrebbe potuto inventarsi una coglionata simile. Nemmeno Dalì in uno dei suoi momenti più grigi, quando sua moglie gli aveva dato un sacco di botte e si era fatta inculare da tutti i surrealisti. È terribile! È di un kitsch, quando ti lasci andare a queste trovate, che possono piacere giusto a un pubblico che non legge. E secondo lei sarebbe poetica! Che poeticità del cazzo! Se lo scrivessi in una mia poesia, i miei amici e soprattutto i miei nemici mi sparerebbero a vista. E sai che ti dico? Farebbero bene!”.

dall’intervista di Matteo Fais a Franz Krauspenhaar, Mi sono rotto i coglioni della letteratura, Pangea, 2018
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Uscirne vivi

Possibile che mia madre non l’abbia mai saputo? Che non sapesse che i Netterfield avevano abitato lì e che perciò la vecchia stava guardando dalle finestre di quelle che era stata casa sua?
È possibile. In vecchiaia sono diventata curiosa quanto basta per accollarmi la noia di controllare documenti e dati, e così ho scoperto che da quando i Netterfield vendettero a quando i miei si trasferirono parecchie famiglie si erano avvicendate in quella casa. Viene da domandarsi come mai l’avessero messa in vendita mentre la proprietaria aveva ancora qualche anno da vivere. Che fosse rimasta vedova, a corto di finanze? Chi lo sa. E chi era poi venuto a portarsela via, secondo quanto aveva detto mia madre? Magari la figlia, la stessa che scriveva poesie e risiedeva in Oregon. Forse era quella figlia, ormai adulta e lontana, che la vecchia cercava nella mia carrozzina. L’attimo dopo che mia madre si era precipitata a prendermi in braccio, perché ne uscissi viva, come diceva lei.
La figlia non abitava lontano da dove rimasi per un certo periodo della mia vita adulta. Avrei voluto scriverle, persino farle visita. Se non fossi stata così presa dalla mia giovane famiglia e dalla mia scrittura invariabilmente inadeguata. Ma la persona con cui al tempo avrei davvero voluto parlare era mia madre, ormai non più raggiungibile.

Non tornai a casa per la sua ultima malattia e nemmeno per il funerale. Avevo due bambini piccoli e non avrei saputo a chi lasciarli, a Vancouver. Avremmo fatto anche fatica a spendere i soldi del viaggio, e mio marito era il tipo che sdegna le formalità, ma perché scaricare la colpa su di lui? La pensavo così anch’io. Di certe cose diciamo che non si possono perdonare, o che non ce le perdoneremo mai. E invece poi lo facciamo, lo facciamo di continuo.

da Uscirne vivi
di Alice Munro
(Einaudi, 2014)

Scappati di casa

Poi ho visto una, in televisione, diceva che quelli del governo “sono degli scappati di casa”. Era col rossetto, tinta chiara come va adesso, usava ridere. Non era sua intenzione, di sicuro, ma dire a qualcuno “sei uno scappato di casa”, lo reputo un complimento. Sarà che c’è tutta una letteratura sugli scappati di casa. I rincoglioniti sono ben altri, nella totalità. Poi ho spento la televisione. Buonanotte.

La piada con la merda

C’erano due uomini al bar. Uno ha detto: «Vieni Andrea, è il nostro quel tavolino, siediti». Andrea si è seduto. «Oh, te ne sei accorto? È già finita l’estate, era giugno l’altro ieri, adesso la sera fa un freddo della madonna», gli ha detto l’altro. Andrea si è acceso una sigaretta. «Andrea, tu la vuoi la piada con la merda?». Andrea ha risposto: «Ah, col mal di gola non è indicato». L’altro ha detto: «Santarcangelo è diventato un porto di mare, pieno di terroni, li senti?». Andrea ha detto: «È così il mondo». E l’altro: «Non li vuol nessuno, allora vengono tutti qui, alla faccia degli anni ’90…». Andrea ha detto: «Altri tempi».
Poi è arrivata una donna col cane e l’altro le ha chiesto: «Scusi, di che razza è questo?». «Chihuahua», gli ha detto la donna, e subito gli ha dato le spalle. Lui ha detto: «Buona la piada con la merda, eh». «Saporita», ha detto Andrea. E lui ha detto: «Andiamo via, tutti terroni qui. La piada con la merda!».