Mi diverto un mondo e mezzo

Alcuni di noi furono dei suoi personaggi. Lui se ne liberò lasciando questa città; però li perse, e fu una delle sue innumerevoli perdite. Lei sa che ci si libera dei personaggi solo attraverso il racconto, e forse neanche. Con noi aveva fatto una cosa diversa, e invecchiando potemmo riconoscerci: non descritti in una pagina, come sarebbe stato normale, ma messi in movimento da lui. Trovava sempre il punto da cui dare progressione alle situazioni, o alle persone. Forse per questo non è mai più tornato, o è tornato di nascosto, e comunque non l’abbiamo più visto. La gente che scriveva, qui, lo ascoltava parecchio, ma lui si interessava soprattutto a noi, perché alla fine si è sempre annoiato delle persone che scrivevano, come se da loro si aspettasse di più, su un altro piano. Forse era deluso che ad un poeta non corrispondesse un brav’uomo. Lui diceva: «Un tizio vive e fa bei versi. Ma se un tizio non vive per fare bei versi, come sono brutti i versi del tizio che non vive per fare bei versi». Forse per questo spariva. È sempre sparito. Con le donne si comportava da amico non da amante. L’amico si mette fuori della competizione e conserva senza mai sciuparle tutte le possibilità, anzi le deposita all’inizio come garanzia, e la sua seduzione è lenta e salda. Un amico come lui, poi! Le parlo di come si comportava con le donne perché è la cosa che più somiglia a come si comportava con lo scrivere. Tutto si svolgeva attorno e a fianco, anche se credo che per lui tutto fosse dolorosamente centrale. Forse lei preferirebbe che si fosse trattato di un singolare ipogeo nella parabola dello scrivere, o vorrebbe trovare immagini del cerchio, del centro, della circonferenza, o dei pieni e dei vuoti. Ma per lui tutto doveva servire a saper vivere: troppo essenzialmente, troppo autenticamente e troppo direttamente perché potesse anche scrivere. Aveva imparato a scrivere a macchina battendo ogni giorno parecchi fogli. Credo che cercasse un lavoro. Poi conservò le pagine e le chiamò «La lotta con la macchina da scrivere». Cercava di scrivere veloce, di scrivere e basta; scriveva tutto quello che gli veniva in mente, l’importante era riempire i fogli: era ironico, e molto sentimentale. Scrisse anche «mi diverto un mondo e mezzo» o «la mia celebre mania di interessarmi delle cose degli altri per mancanza di mia vita». Avrà avuto una ventina d’anni o poco più, ma si vede già che sarebbe stato un amico dello scrivere, e non uno che scrive. Essere amici dello scrivere è complementare allo scrivere solo per gli amici. Quante lettere! Lo scrittore di lettere non si mette a repentaglio nella forma, dato che la forma della lettera non è in quello che c’è scritto, ma in una relazione di vita. È l’unico scrittore che si è guadagnato il suo lettore, probabilmente con non meno fatica, anche se su un altro piano. Scriveva poesie come regali per le sue amiche; era come se prendesse la forma per gioco, dato che è indubbio che la conoscesse. È strano, uno che poi avrebbe scritto un libro incompiuto sul grande viaggio, uno ironico come lui, era talmente austero da non prendere sul serio, o con una leggerezza diversa, la peripezia della forma. Forse si può decidere di scrivere soltanto note in fondo, ma il rischio è sempre sulla pagina. Alcuni di noi erano dei suoi personaggi, e lui ci ha cambiati, sebbene qualcuno può pensare che nel proprio caso non fosse del tutto necessario. Magari anche lui sarà cambiato, col tempo. Ci ha lasciati come una cosa vecchia e insopportabile. Credo che sia il disagio di chi si rinnova continuamente, per strappi; il passato gli appare come una pelle secca, vuota di sé, inammissibile. In questo senso è stato un errante, anche se non saprei dirle se fosse qui l’errore che quel capitano si chiedeva sempre dove fosse.

da Lo stadio di Wimbledon
di Daniele Del Giudice
(Einaudi, 1983)