Etica, estetica

All’inizio ero esaltata all’idea di leggere Controcorrente, perché Gary disse che parlava di un uomo che decideva di vivere secondo principî estetici anziché morali, ed era una cosa che mi aveva detto recentemente Svetlana: che vivevo secondo principî estetici, mentre lei, nutrita com’era di filosofia occidentale, era condannata a vivere basandosi su noiosissimi principî etici. A me non era mai venuto in mente di considerare estetica ed etica come due cose opposte. Pensavo che l’etica fosse estetica. «Etica» significava la regola d’oro, che di base era una regola estetica. Ecco perché era chiamata così, un po’ come la sezione aurea nell’arte.
– Non è per questo che non si imbroglia e non si ruba: perché è brutto? – dissi. Svetlana disse che non aveva mai conosciuto una persona con una sensibilità estetica così forte.

di Elif Batuman
da L’idiota
(Einaudi, 2018)

Uscirne vivi

Possibile che mia madre non l’abbia mai saputo? Che non sapesse che i Netterfield avevano abitato lì e che perciò la vecchia stava guardando dalle finestre di quelle che era stata casa sua?
È possibile. In vecchiaia sono diventata curiosa quanto basta per accollarmi la noia di controllare documenti e dati, e così ho scoperto che da quando i Netterfield vendettero a quando i miei si trasferirono parecchie famiglie si erano avvicendate in quella casa. Viene da domandarsi come mai l’avessero messa in vendita mentre la proprietaria aveva ancora qualche anno da vivere. Che fosse rimasta vedova, a corto di finanze? Chi lo sa. E chi era poi venuto a portarsela via, secondo quanto aveva detto mia madre? Magari la figlia, la stessa che scriveva poesie e risiedeva in Oregon. Forse era quella figlia, ormai adulta e lontana, che la vecchia cercava nella mia carrozzina. L’attimo dopo che mia madre si era precipitata a prendermi in braccio, perché ne uscissi viva, come diceva lei.
La figlia non abitava lontano da dove rimasi per un certo periodo della mia vita adulta. Avrei voluto scriverle, persino farle visita. Se non fossi stata così presa dalla mia giovane famiglia e dalla mia scrittura invariabilmente inadeguata. Ma la persona con cui al tempo avrei davvero voluto parlare era mia madre, ormai non più raggiungibile.

Non tornai a casa per la sua ultima malattia e nemmeno per il funerale. Avevo due bambini piccoli e non avrei saputo a chi lasciarli, a Vancouver. Avremmo fatto anche fatica a spendere i soldi del viaggio, e mio marito era il tipo che sdegna le formalità, ma perché scaricare la colpa su di lui? La pensavo così anch’io. Di certe cose diciamo che non si possono perdonare, o che non ce le perdoneremo mai. E invece poi lo facciamo, lo facciamo di continuo.

da Uscirne vivi
di Alice Munro
(Einaudi, 2014)

La vecchiaia

«Poi ognuno la pensa come vuole, faccio per dire, ma per me tu sbagli». «Claudia, sta’ buonina, non entriamo adesso in questi discorsi, che mi vien fastidio». «No, siccome l’hai detto, che vuoi vivere fino alla vecchiaia, non lo vedi tuo babbo come si è ridotto?». «Come si è ridotto, Claudia…». «Sono andata lì, non mi riconosce neanche più, chiede alla tua mamma, “Ma chi è quella bella donna?” “La Claudia!” Chi vuoi che sia. Poi mi strizza l’occhio e allunga le mani». «Non è detto che io diventi come mio babbo». «Che discorsi, ma sarà pur meglio morire quando ancora stai bene, senza malattie, così si lascia un bel ricordo invece che tirare a campare sulle spalle degli altri». «Claudia, le spalle degli altri, è la vecchiaia». «È una schifezza, io non la voglio la vecchiaia, tu sì, l’hai detto!». «Io ho detto che non voglio morire, che è diverso. Lo posso dire, che non voglio morire, o non lo posso neanche dire?». «Puoi dir quello che vuoi, ognuno la vede a modo suo, ma c’è la vecchiaia in mezzo, non si scappa da lì». «Sta’ buonina, Claudia, che dopo la vecchiaia si ferma, a un certo punto». «Va là, me lo dirai tra dieci anni se si ferma». «Ma quando te lo dico, che vuoi morire prima te?». «Allora muori prima te, fai presto, che dopo te lo vengo a dire io».

Scappati di casa

Poi ho visto una, in televisione, diceva che quelli del governo “sono degli scappati di casa”. Era col rossetto, tinta chiara come va adesso, usava ridere. Non era sua intenzione, di sicuro, ma dire a qualcuno “sei uno scappato di casa”, lo reputo un complimento. Sarà che c’è tutta una letteratura sugli scappati di casa. I rincoglioniti sono ben altri, nella totalità. Poi ho spento la televisione. Buonanotte.

La piada con la merda

C’erano due uomini al bar. Uno ha detto: «Vieni Andrea, è il nostro quel tavolino, siediti». Andrea si è seduto. «Oh, te ne sei accorto? È già finita l’estate, era giugno l’altro ieri, adesso la sera fa un freddo della madonna», gli ha detto l’altro. Andrea si è acceso una sigaretta. «Andrea, tu la vuoi la piada con la merda?». Andrea ha risposto: «Ah, col mal di gola non è indicato». L’altro ha detto: «Santarcangelo è diventato un porto di mare, pieno di terroni, li senti?». Andrea ha detto: «È così il mondo». E l’altro: «Non li vuol nessuno, allora vengono tutti qui, alla faccia degli anni ’90…». Andrea ha detto: «Altri tempi».
Poi è arrivata una donna col cane e l’altro le ha chiesto: «Scusi, di che razza è questo?». «Chihuahua», gli ha detto la donna, e subito gli ha dato le spalle. Lui ha detto: «Buona la piada con la merda, eh». «Saporita», ha detto Andrea. E lui ha detto: «Andiamo via, tutti terroni qui. La piada con la merda!».

I villici

Ci fu un tempo in cui gli scrittori non scrivevano ancora, ma andavano raminghi per le campagne e le valli. Alcuni erano zoppi, altri erano ciechi, altri rappresentavano lo scarto dell’umanità. Sul far della sera capitavano in qualche fienile o eventualmente in una stalla e lì, alla presenza dei villici, davano sfogo alla loro riserva di versi e di prose. I villici li consideravano dei menomati che cercavano qualcuno con cui lamentarsi delle menomazioni. E in effetti la letteratura alle origini era fatta di lamenti e di accuse alla vita: perché ad esempio lo scrittore era invalido o mutilato e non trovava l’amore, o veniva cacciato di casa in quanto dava noia alla vista, o era perseguitato dai cani randagi.
Dunque lo scrittore a quei tempi antichi arrivava tutto sbilenco nel tardo pomeriggio o al tramonto, e i villici già tra di loro vedendolo giungere se ne rallegravano. Lo scrittore a quei tempi spesso era burbero, poco socievole, da non confondere con i mendicanti, melliflui e queruli, che si fingevano a volte scrittori, ma non avevano in realtà nessuna vera disgrazia. Qualche imperfezione, qualche dito in meno, ma voglia soprattutto di soldi senza far niente; questo era il medicante! Un impostore.
Lo scrittore dunque arrivava lento e impolverato e sedeva davanti alla stalla, dove mangiava la zuppa, se gliela davano, o la polenta, o il pane cotto, e già qui cominciava a lamentarsi a bassa voce, ad esempio della strada insidiosa, di un cane che lo aveva morso nell’osso, di una stampella rubata dai ladri. Era un lamento ancora leggero, tra una cucchiaiata e l’altra, senza intenti patetici, ma con l’accento della verità cruda. Ecco allora che all’accendersi delle prime stelle nel cielo turchino, quando cessavano tutti i lavori del giorno e nella campagna calava una pace incantata, lo scrittore cominciava dei lamenti più vasti, non solo sulla sua spina dorsale, sullo sterno, sul suo rachitismo, sulle infezioni veneree, sul piede caprino, sulla foruncolosi, la lebbra bianca, la poliomielite, i denti persi, il cimurro, la lussazione dell’anca, il tifo esantematico che l’affliggeva, l’asma, e così di seguito, mentre si raccoglievano i villici dalle case adiacenti e dalle case lontane. Quando la sera era calata e si sentiva ad esempio tutto il profumo del mese di maggio e una ragazza ben pettinata e lavata gli portava la fiaschetta di vino, lo scrittore allora, dopo averne bevuto e fiutato l’aria dolce della ragazza, estendeva i lamenti alla sorte, alla natura biologica; diceva: non fossi mai nato! A cosa serve la vita? A cosa serve l’estate, i prati, la riproduzione sessuata? Aveva la voce straziante che sembrava un violino. E allora si lamentava sempre più in vasta estensione, mentre i villici gli facevano cerchio; si lamentava del sole inutile, delle stelle senza un significato, della materia distribuita così raramente nel cosmo, delle molecole in decadimento, del secondo principio della termodinamica, dell’universo ormai prossimo allo zero assoluto, che lui aveva sempre avvertito, fin da bambino; perciò a che serve, diceva, anche il vino, il fieno, la stalla, la coltivazione dei campi?
I villici stavano fermi, in silenzio, senza tuttavia capire bene e a fondo. Le ragazze dopo un po’ sgusciavano tra il buio degli alberi e le si sentiva bisbigliare e ridere coi giovanotti. È a questo punto che lo scrittore ammutoliva e si ritirava da solo tra il fieno.
Essendosi in seguito i villici meccanizzati ed essendo quindi le stalle divenute dei luoghi zootecnici e inospitali, come pure i fienili, è successo che gli scrittori autentici non si siano più distinti dai falsi storpi e dai mendicanti. Tuttavia ci fu uno, poi imitato da altri, che non avendo più stalle e villici su cui sfogarsi, prese a sfogarsi sopra la carta, creando così una sottorazza di scrittori con la mania esclusiva di scrivere; costoro li si può ritrovare ancor oggi chiusi in casa perennemente sotto la luce artificiale, dove perdono in poco tempo la sanità cerebrale e divengono egocentrici e pallidi come vermi intestinali, senza motilità, senza una vita d’affetti, e soprattutto ruffiani, carogne e falsi. Si dice anche che i tempi antichi non siano mai esistiti, se non negli scritti malsani di tali scrittori, e che non siano mai esistiti né le stalle, né i fienili, né i villici.

da Gli scrittori inutili
di Ermanno Cavazzoni
(Feltrinelli, 2002)

Per chi è indifferente alla notorietà

Io ringraziare desidero per le facce del mondo
che sono varie e molte sono adorabili
per quando la notte
si dorme abbracciati
per quando siamo attenti e innamorati
per l’attenzione
che è la preghiera spontanea dell’anima
per tutte le biblioteche del mondo
per quello stare bene fra altri che leggono
per i nostri maestri immensi
per chi nei secoli ha ragionato in noi

per il bene dell’amicizia
quando si dicono cose stupide e care
per tutti i baci d’amore
per l’amore che rende impavidi
per la contentezza, l’entusiasmo, l’ebbrezza
per i morti nostri
che fanno della morte un luogo abitato.

Ringraziare desidero
perché su questa terra esiste la musica
per la mano destra e la mano sinistra
e il loro intimo accordo
per chi è indifferente alla notorietà
per i cani, per i gatti
esseri fraterni carichi di mistero
per i fiori
e la segreta vittoria che celebrano
per il silenzio e i suoi molti doni
per il silenzio che forse è la lezione più grande
per il sole, nostro antenato.

da Le giovani parole
di Mariangela Gualtieri
[Einaudi, 2015]
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Dio

Tra la Via Cupa, la biblioteca, sono sempre in giro a bighellonare. Camminavo, era mattina, le sette o le otto, giusto per far due passi, e ho visto che c’era la porta aperta, in chiesa. Quella chiesina che ho vicino a casa, che la frequentano in pochi, giusto la domenica. Si vedevano le panche, dentro, le vedevo dalla strada, e poi oltre le panche si vedeva la parte fuori, dietro la chiesa. A quanto pare avevano aperto anche l’altra porta, sulla parete in fondo. C’era un po’ di sole, l’aria fresca, nessuno. In quel momento mi è sembrato di sentirle, quelle panche, cosa provavano, con l’aria fresca addosso, un filo di luce. Mi ero fermato a guardare, di qua dalla strada, non mi sono avvicinato, sono rimasto lì, ho pensato: e se da quella porta esce Dio?
Mi sembrava che Dio ci fosse già entrato, nella chiesina, da quella porta, magari prima che arrivassi. Era come se lo sapessi, e che quindi sarebbe dovuto uscire. Ero sicuro di aver capito. Non ho le prove e non voglio convincere nessuno, ma nella mia testa era tutto chiaro, facile: il Dio che era entrato erano l’aria e il sole, e il Dio che usciva erano quelle panche, rovinate, luminose, lucide come mi sentivo io, o come ci si sente tutti, di mattina presto col sole e l’aria fresca.
Se Dio è questo, ho pensato, se siamo noi e le panche, e tutte le cose in generale, se Dio è quello che ci sorprende, di mattina, che basta aprire la porta di una chiesa poco frequentata; se Dio è quello che entra e quello esce, e se uno qualunque che passa di lì, ma chiunque, con un po’ di luce e un minimo d’aria fresca può vederlo, insomma, se Dio si può vedere, ho pensato, che magari si può vedere solo dalle sette alle otto di mattina, una fascia oraria ristretta, ma se davvero si può vedere, allora Dio c’è.
E se c’è, vuol dire che se uno lo cerca, lo può trovare. Forse bisogna cercarlo solo dalle sette alle otto, nei giorni di sole. Sempre meglio che niente. Sempre meglio che passar la notte a pregare, perdere il sonno per chiedergli le cose. Non può mica far contenti tutti, siamo in troppi. E a lui chi ci pensa? Chi ci pensa a Dio, se è contento?
Quella mattina, con la porta aperta della chiesa, un po’ di sole e l’aria fresca, di qua dalla strada, io ho sentito che era contento, Dio. Le panche erano lucide, si vedeva il retro della chiesa, e sono abbastanza sicuro che, sì, che Dio fosse contento. E io ero più contento di lui.

Sìììì

Allora domani ho questa giornata piuttosto pesante, che mi devo svegliare prestissimo, ma voglio comunque vedere dove vuole andare a parare, Agata. Che sarà anche rossa, però io sento che sto reagendo in un certo modo inconfondibile. Spegni la luce, che mi vergogno, mi dice, e spogliati. Eseguo. Lei dice Non forzare niente, non forzare niente, mi prende in mano il cazzo e comincia a dire Com’è duro. Com’è grosso. Che cosa mi faresti con questo cazzone?
Io veramente queste cose di amore dialettico non le ho mai frequentate. Comunque ci provo: Ti prendo da dietro, le dico. Lei dice Sìì, e poi. E poi? Poi ti spacco in due come un melone, le dico. Sìììììì, dice lei, e poi? E poi, cosa le faccio? mi chiedo, che non so cosa dirle. Comincio a stantuffarti come un battello a vapore, le dico. Sìììì, dice lei, e poi? Cosa mi invento adesso? Meno male che si è bevuta il battello a vapore. Learco, e poi? insiste lei. Eh, poi ti infilo un dito nel culo. Sììììì, grida, sììììì, e poi? E che do bali. E poi ti faccio godere come una troia Sììììì. E poi ti rigiro e ti piscio in bocca tutta l’anguria che ho mangiato oggi Sììììììì, sìììììììì. Tutte le cose che mi piacciono, hai detto tutte le cose che mi piacciono, grida, ma lo grida con un tono che sembra che sia tristissima. Infatti lascia la presa e mi dice Mandami a casa, mandami a casa. Vai a casa, le dico, e mi scappa da ridere. No, adesso mi prendi da dietro, dice lei, e si gira e io comincio a tirarle giù le mutande, ma lei grida No, non forzare niente, non forzare niente. Cosa fareste, voi? Io, in questi momenti di indecisione, di solito mi accendo una sigaretta. E faccio così, vado in sala, prendo le sigarette dalla giacca e mi accendo una sigaretta. Learco! sento che mi chiama. Oh, le dico, e vado in camera. Accendi la luce, mi dice, che voglio che mi vedi tutta nuda. Accendo la luce. Lei è nuda. Si tocca. È stupido, vero? mi dice. Non è stupido, secondo te? Io non dico niente, che voglio vedere dove vuole andare a parare. Coricati di fianco a me, mi dice, e io mi corico e lei di nuovo mi prende il cazzo in mano e comincia a dire Com’è grosso. Com’è caldo. Me lo immagino tutto dentro di me. Cosa mi faresti, con questo dentro di me? Uguale. Ti prendo da dietro, ti spacco in due come un melone, comincio a stantuffarti come un battello a vapore, ti infilo un dito nel culo, ti faccio godere come una troia. Sììì, sìììì, sìììì. Tutte le cose che mi piacciono. Mandami via, mandami via.
La prima volta, va bene, la seconda, basta. Non siamo mica in un videogioco, che bisogna ripetere sempre le stesse cose. Questa è la vita reale, che si rischia inavvertitamente di tirarsi in casa dei matti furiosi, se non si sta attenti. Allora, dopo la sigaretta, vado in camera e le dico Cazzo, Agata, ma lo sai che ora è? No, dice lei. È l’una e mezza, è tardissimo. Io domani mi devo svegliare alle sette, le dico. E allora? chiede lei, appoggiata sul gomito destro, con una faccia tutta contrariata. Io, le dico, se non faccio due cicli di sonno, il giorno dopo sono una larva. E domani non posso assolutamente permettermi di non essere in forma, che devo fare una cosa importante in un castello. In un castello? dice lei. Eh, in un castello. Scusa, ma non ho tempo di spiegarti, che ogni minuto che passa sono minuti che rubo al mio secondo ciclo di sonno, il più importante. Senti, io dormire in due, non ce la faccio. Ti dispiace andare a casa? Dovresti però cambiarti in sala, che io mi infilo subito a letto, che non ho un minuto da perdere.
La beve, o fa finta di berla, che questa era ancora più grossa di quella del battello a vapore. Se ne va senza dire parola, con la faccia contrariata.

da Bassotuba non c’è
di Paolo Nori
[Feltrinelli, 2009]

Chiavare

Né laico, né prete
intendo votare,
ho sempre sete,
voglio chiavare.

di Antonio Delfini
da Poesie della fine del mondo, del prima e del dopo
[Einaudi, 2013]