La maniglia

Di notte, dal letto, si sentono le macchine che passano, sembra che arrivino da lontanissimo, non si fermano, volano dritto. Se stai a occhi chiusi, ce ne sono alcune che non arrivano mai, poi i motorini, fanno un casino. Camminavo per casa, prima, la testa leggera, e la maniglia della porta mi si è infilata in un passante dei pantaloni. Meglio di così…

Salvini

Salvini è come uno che conoscevo, si chiamava Nicola, aveva sempre una novità. Andavo da lui, a parte che aveva la piscina, anche, poi l’attico in cima al condominio, avevamo undici, dodici anni, la sua mamma gli comprava tutto, ma tutto, giochi, computer, scarpe da calcio, da calcetto, da calciotto, e lui mi faceva vedere, era tranquillo, parlava, spiegava, e poi il giorno dopo altra roba nuova, non finiva più. Adesso Salvini fa uguale, rilancia tutti i giorni, sennò la gente abbassa la guardia, s’addormenta, e dopo si scordano di tutto. Io, quando avevo bisogno di novità, ero piccolo, non c’era la politica, andavo da Nicola, stavo un po’ lì, guardavo, questo cos’è, e questo? Non le volevo, tutte quelle robe, da far che, non mi servono, non ci faccio niente, anzi, dar via un fiore a una ragazza, a me, come mi piacerebbe…

Il neo

Devo dire che i russi, non pensavo, prima non li conoscevo, invece adesso che ci ho parlato, con le russe, mi son ricreduto. Li facevo diversi, freddi, un po’ stronzi, dato che i giornali fanno passare Putin come il diavolo…
Son leggeri, i russi, leggerissimi. Ci parli un minuto e ti mettono il buon umore, gentili, scherzano, non esagerano mai in niente. Però sono anche seri, quando serve, e ti aiutano, basta un’occhiata e capiscono. Sembra che esistano apposta per te.
Qui a Malta è pieno di russi, e c’è questa ragazza, si chiama B., è bionda, mi ha detto che abita a Mosca, parliamo molto, anche se io in inglese so dire poche cose, lei mi viene incontro. Bene o male ci capiamo. Dice che Mosca è economica, un biglietto della metro costa 15 cent e tutte le fermate son bellissime, coi quadri, i muri ricamati. Però ha detto che in Russia non va tutto bene come a Mosca; io le ho detto che a me piacciono i posti così, dove ci sono le cose belle e le cose brutte insieme.
Aveva il raffreddore, quel giorno, B., starnutiva fisso, ma voleva dirmi tutto: le piace prendere il treno ma solo se c’è il Wi-Fi; non sopporta l’aria condizionata perché si ammala subito. Poi conosce un sacco di giochi, lei, li fai coi suoi studenti russi, e adesso anch’io e gli italiani ci giochiamo. Per esempio c’è quel gioco che devi fare la lingua agli altri, senza farti vedere da chi è in mezzo, oppure palla avvelenata, che in inglese si dice fireball. Avevamo delle sfide, tra di noi. In generale io vinco spesso, perché sento la competizione. Però lei sa fare delle posizioni, con le dita, intrecciando le mani, che io ci provo ma è impossibile.
Mi ha insegnato delle parole nuove, in inglese. Spiccicavo solo due o tre frasi, poi con B., che aveva pazienza, non sempre, certe volte mi sfanculava, un po’ di cose le ho imparate: ho scoperto che song, canzone, si pronuncia son, senza la g. E altre robe che adesso non mi vengono in mente.
Il problema è che l’ho capito tardi, che mi piaceva.
L’ho capito un giorno, verso la fine, eravamo in autobus, mi stava dicendo che ha un neo nell’occhio, lei, e mi ha detto di guardarci, se lo vedevo. Ho cominciato a cercarlo, il neo, nel suo occhio, non lo trovavo da nessuna parte. Dopo un po’ l’ho trovato. Era proprio sul bordo della pupilla, un neo piccolino, lì, nel suo occhio. E quando ho smesso di guardare, dentro il suo occhio, per guardarla di nuovo in tutti e due, ho visto la sua faccia intera, e lei mi stava ancora guardando…
Rideva. Se m’innamoro di una russa è finita, ho pensato.
Diceva che era una cosa unica, quel neo nell’occhio. Mi ha fatto vedere altri nei sulle mani, poi i palmi e le linee della vita, mi ha chiesto se ci credo. Io ho detto che non me ne frega, lei ha detto che neanche a lei gliene frega.
Mi ricordo tutto quello che mi ha detto, in queste settimane, e anche tutti i giochi che abbiamo fatto insieme. Ogni volta che mi rivolgeva la parola, non so, stavo bene. B. è stata la prima persona che ho visto, a Malta. Appena son atterrato, il primo giorno, c’era lei ad aspettarmi. Ed è stata anche l’ultima. Dovevamo prendere il volo, l’altro ieri, in aeroporto, e ci siamo separati.
Aveva fretta di andare, e non siamo capaci nessun dei due di fare i melodrammatici. Lei doveva prendere la sua direzione, per Mosca, io la mia. Ci siamo abbracciati, buon viaggio. Però ormai lo sapevo, dov’era, il neo. E volevo vederlo per l’ultima volta, in aeroporto. L’ho trovato subito. Era lì, sul bordo della pupilla, prima di dirle ciao.

Quanti anni hai?

Foto di Marco Pesaresi
sulla transiberiana Mosca – Vladivostok

Mi è successa una cosa, qui a Malta, adesso abito in un residence, è pieno di studenti stranieri, russi soprattutto, o lettoni, gente del nord, pelle bianca, occhi chiari, vanno dai 14 ai 17 anni… Io mi occupo solo di italiani, ma poi i gruppi si mischiano, i ragazzi fanno amicizia. E insomma c’è uno dei miei, un certo Mario, viene da Napoli, che l’altro giorno ci ha provato con una della Lettonia che la chiamano Mortisia. Sembra una vampira, si veste sempre di nero, alta, e la sera gira mezza nuda, si profuma tutta e ti passa vicino, in mutande. Uno spettacolo. Quando l’ha portata in camera, Mario, lui è uno che non scherza, da grande vuol fare il militare, ci ha messo un gran impegno, in inglese, per convincerla, ma Mortisia non l’ha voluto baciare. Gli ha detto di no, a Mario. E gli ha detto anche il motivo. Gli ha detto che le piaccio io.
Io?
Erano giorni che mi guardava, Mortisia, sempre in posa, ma mai una parola. Non pensavo che arrivasse a tanto. Le ragazzine guardano un po’ tutti, e invece… Mario era disperato, proprio.
Così quella sera, per dimenticare, io e Mario e tutti gli altri, gli italiani, poi si sono aggiunte qualcuna di loro, lettoni, russe, li ho portati a fare un giro a Lija, un paesino. C’era la festa di paese, e mentre eravamo fuori dalla chiesa, tra la processione, con la gente che entrava e usciva, mi sento chiamare, da dietro. Mi giro e vedo questa ragazzina, bionda anche lei, occhi di un azzurro… Mi dice:
«Sono molto nervosa, ma voglio dirtelo perché è la mia ultima sera a Malta, domani parto», e dopo un po’ mi confessa, parlava velocissima, che io le piaccio, le piaccio dal primo giorno, e che le piace il mio sorriso.
Un’altra?
Non sapevo neanche il suo nome. C’era anche Mortisia, lì vicino, che ci guardava male, e questa ragazzina mi sorrideva, gli occhi un po’ nascosti, che arretravano. Era una cosa unica da vedere. Di sicuro non son stato all’altezza, chissà che forma ha preso la mia faccia.
Le ho detto solo grazie. Lei ha detto qualcos’altro, poi le ho chiesto:
«Quanti anni hai?».
«15», ha detto. Io ho detto 27 e siamo scoppiati a ridere. Mi è piaciuto ridere con lei. C’era questo ostacolo di mezzo, tra noi due, gli anni, che puzzava di ruggine, una roba che non conta niente nell’universo. Come quando vai in banca, che ti danno un bancomat nuovo, in teoria dovresti firmarlo, dietro, e ci pensi un attimo, pensi: lo firmo? Tempo due minuti e non lo firmi, tanto nessuno lo firma e non serve a un cazzo.
Le ho chiesto gli anni per farle capire che non l’avevo mai guardata. Ho dato la colpa all’età. Non sono riuscito a far di meglio. Poi lei ha allungato la mano per stringere la mia, e ci siamo stretti la mano. Fine.
Quando l’ho raccontato a Mario, di lei che mi si era dichiarata, un ridere… Lui ha detto che se vado in Lettonia mi fanno Re in due e due quattro. Poco dopo sono cominciati i fuochi d’artificio, e mi son sentito esplodere dal dispiacere. Ho pensato, ma non poteva tenerselo per sé? Invece ha fatto bene, lei, si fa così con la vita, bisogna dare tutto. Altroché Mortisia, è inutile star lì a pavoneggiarsi… In quel momento mi sono accorto che c’è ancora tanto di bello, in giro, nelle persone, nel mondo. Basta poco per trovarlo, bisogna avere il coraggio. Essere presenti.
Ancora ci penso a lei. Mi è dispiaciuto, perché era sensibile, suonava l’ukulele al mare, canticchiava, e io non stavo lì a guardarla troppo, quando una persona suona, per non dare imbarazzo. E invece l’altra sera, poco prima che andassimo a Lija, mi ero seduto anch’io in reception, a vedere, mentre suonava. Lei mi aveva guardato, per un attimo, in un modo…
Mi trovo molto bene con le russe (quelle più grandi), perché sono leggere. Sanno chi sono, loro, e da dove vengono, hanno delle radici, un’identità. Purtroppo con le italiane non ho più niente da spartire. È che si son perse nelle stronzate e non hanno conservato niente. Non so chi gliel’ha suggerito, alle italiane, di diventare così. Hanno espulso la loro parte migliore, mi sembra.
Le lascio agli italiani, le italiane. Se le tengano. Tutte piene di smargiasseria… Smargiasseria, lo voglio spiegare, è come uno che ha smesso di fumare da una settimana e va dai suoi amici che fumano, fa il gasato e dice: «No grazie, io ho smesso».
Fanno le fenomene mediatiche, le italiane. Ridimensionatevi un attimo, che vi fa bene.
Adesso lei è tornata a casa, chissà dove, io sono ancora qui, a Malta, con Mario, e nel residence non c’è più neanche Mortisia. Se un giorno mi dovesse andare male in l’Italia, magari una capatina lassù, in Lettonia, Estonia, o Russia, davvero, la farò. Ho questo sentore di grande accoglienza verso di me, e mi piacerebbe, stare un po’ al fresco, vedere se le donne hanno ancora quei nomi come nei libri di Dostoevskij, e se sono ancora così, un po’ più donne, e un po’ meno… Un po’ meno italiane.

Un miracolo

Oggi sono uscito in anticipo, avevo il treno a una cert’ora, a stare in casa mi veniva male, così son andato giù fino alla stazione, sotto il sole, a piedi. Faceva caldo, e vicino alla stazione, lì di fianco, c’era un cantiere. Di quelli dei muratori, ancora non troppo avanti, avevano messo le fondamenta e lo stavano tirando su; di sicuro un condominio, una palazzina sarebbe venuta fuori. Era grande, con le impalcature, i tubi e i mattoni, e in alto, in cima alle impalcature, c’era un uomo, da solo, che lavorava. Lassù, senza maglia, sotto il sole, col martello, piantava dei chiodi, poi spostava le robe, montava… Sembrava il creatore di tutto il cantiere, dei muri, dei tubi, delle impalcature. Era tutto suo, sembrava.
Ho pensato: ma guarda te che forza che ha quell’uomo, da solo, a tirar su un condominio, sotto il sole, a lavorare. Poi quando torna a casa, la sera, è stanco? Cosa fa, dopo, a casa? È sposato? Mi son guardato le mie braccia, gli avambracci, che son magri i miei, anche i polsi, e poi ho guardato i suoi, le sue braccia, lassù, in cima al cantiere, che stava alzando una trave per appoggiarla contro l’impalcatura. Le sue braccia forti, le sue mani da muratore.
Ma se quell’uomo lì, che è circa come me, nel senso, siamo due uomini, abitiamo anche abbastanza vicini probabilmente… Se lui, col suo impegno, sotto il sole, tira su un condominio, allora io, posso farlo anch’io, se m’impegno, qualcosa di buono. Sono un uomo anch’io, come lui.
Sono andato avanti, ho superato la stazione, e ogni tanto mi giravo per vedere il condominio e quell’uomo, in alto, che lavorava con calma, una cosa dopo l’altra, faceva tutto, senza lamentarsi. E chissà quante altre ne ha tirate su, di case, prima di oggi, mica è la prima. Chissà quante ne ha fatte, in silenzio, senza il plauso di nessuno. Chissà quanta roba ha fatto.
Ho pensato a tutte le case che ci sono, qui, nel mio paese, e poi nel mondo, a tutti gli uomini che le hanno costruite, tutti quegli uomini, da soli o a gruppetti, che giorno dopo giorno han tirato su le case, piano piano, sotto il sole, o anche sotto la pioggia… Perché è il loro lavoro, e loro fanno quello, dalla mattina alla sera. Per un momento mi son sentito orgoglioso, di far parte degli uomini, delle persone in generale, queste persone qui, con le mani sporche, che lavorano, fanno le cose come le sanno fare, come hanno imparato.
E dopo un po’ di tempo, in un posto, in un prato, un campo dove prima non c’era niente, vien fuori una casa, non una capannina, ma una casa, un condominio, una roba che dura per un secolo, anche. Mi sembra un miracolo. È bellissimo.

Cretinetti

L’altro giorno ero a pranzo con della gente, e scappa fuori ‘sto ragazzo, con la crestina, l’orologio moderno, di quelli col contapassi, tutto curato, la barbetta, e dice che lui ha fatto il cammino di Santiago. Ah, il cammino di Santiago, tutte lì a sbragarsi, che bello, lo voglio fare anch’io prima o poi, dicevano, che bravo, quanti chilometri, e tutte quelle domandine. E lui lì, che rispondeva, dava tutto per scontato, come uno che ha visto tutto nel mondo, e sembrava un eroe tornato al fronte, l’imbecille. Ha raccontato che ha preso la neve, neve fino al ginocchio sui Pirenei, diceva, e poi gli hanno chiesto, ma dove dormivi, in tenda? E lui, no, negli ostelli.
Casca l’asino, ho pensato.
Gli fanno, ma con chi sei andato, da solo? Ah, sì, ovvio, ha detto lui, il cammino di Santiago o lo fai da solo o non lo fai. E tutte, bravo, bravissimo, anch’io voglio farlo da sola…
Dopo il cretino ha raccontato che c’era gente, un sacco di gente a farlo, da tutte le parti del mondo, giovani e vecchi. Ma non eri andato da solo? Ma se vai per farlo da solo, ‘sto cammino, e poi siete in 75, come una processione, come quelle comitive di morti che passeggiano coi bastoni e le pettorine, ma che roba è. Ti pare che sia andare da soli una cosa così? L’orologino che hai al polso non te le dice queste cose? Il fon con cui ti tiri su quella crestina sopra la testa, la mattina, non ti fa un po’ d’aria al cervello?
Da solo. Cos’hai fatto, da solo? Avrai fatto la doccia in ostello, da solo. Rincoglionito. Ma niente da fare, tutte lì, le donnine, pendevano dalla sua bocca.
Alla fine del pranzo ho salutato tutti, compreso il cretino, ciao, poi ho deciso che il cammino di Santiago non lo farò mai. Voglio perdermi dietro casa mia, la sera, in un fazzoletto di giardino, quando ci sono le zanzare, le lucciole, e i miei pensieri che han voglia di andare lontano.

La seconda mandata

Frame dal video di Something just like this
dei Coldplay

L’altro giorno ho visto Niki, che era un po’ che non lo vedevo… Lui nel frattempo è diventato un imprenditore, dice, e ha fatto i soldi, ha le giornate piene: dorme 4 ore a notte, vuol comprarsi il motorone, e morosa nuova, una di Santa Giustina, io invece son messo peggio che prima. E insomma siamo andati lì sul suo terrazzo, a parlare un po’, con due sigarette, i piedi nudi, seduti stravaccati, che lui abita fuori, in campagna, in un posto dove c’è un silenzio, ma un silenzio… Si vedono i contorni delle colline, la notte, e non vola una mosca. Fa più fresco che su a Torriana, da lui. Ti vien freddo.
Abbiamo parlato per lo più del tempo, di come adesso non ci sono più i giorni, nelle nostre vite, almeno nelle nostre due, e non è più come una volta, che aspetti quel giorno là, per far quella cosa, o per riposarti, no, adesso tutti i giorni hai qualche pensiero, e lo vivi per intero, fai tutto dentro quel giorno, e così i giorni passano e non te ne accorgi, si ammucchiano uno sull’altro, e il futuro non è più brillante come lo era prima, non ti immagini “ah, quel giorno lì andrò, farò…”, no.
Vivi i giorni, e prima o poi ci arrivi, a quel giorno lì, e alla fine non è che succederà poi tanto, lo sai già. Il fatto è proprio che lo sai già. Non succede mai chissà che, quand’è la fine.
Abbiamo imparato che le cose, per farle andare bene, bisogna lavorarci negli anni, i miracoli non succedono, è inutile sperare che un giorno… L’abbiamo proprio dimenticata la speranza, l’abbiamo rimossa. Non c’è più dentro di noi. Forse è brutto, ma è così. Vuol dire che l’abbiamo preso in culo tante di quelle volte, a sperare, che non ne siamo più capaci. Le delusioni ci hanno smussato. E non è un male, per carità. Il mondo ti fa sentire che esisti attraverso la sofferenza; è il suo modo di risuonare dentro di te, io penso. Quindi ok.
È che siamo diventati vecchi. Non troppo, ma un po’ sì.
E poi abbiamo parlato del fatto che ormai non si riesce più a stringere niente, con le donne, che l’intimità è scomparsa. Anni fa volevamo provare tutto e non legarci a nessuno, ed è andata a finire che siamo rimasti con le mani vuote. Che è sbagliato. Su questo siamo d’accordo. Inutile dire “ah beh, io ho provato tutto, son stato con cento donne” e bla bla bla, “invece quell’altro che si è sposato a 19 anni e ha un figlio non sa cosa si è perso, non ha vissuto”. Noi non sapremo mai cosa vuol dire stare 15 anni con la stessa ragazza, che avventura possa essere…
Adesso si cambiano le persone come ti cambi una maglia sporca. E il tempo va avanti, giorno dopo giorno, oggi abbiamo pensato questo, domani ognuno per i cazzi suoi, con altri pensieri.
Abbiamo parlato anche di uno, una testa calda che adesso si è trasferito a Parma, ma comunque lo seguiamo su Facebook, il nome non posso dirlo, giocava a calcio con me da piccoli, che mette sempre le foto di sua figlia, una bambina, avrà 6 anni, quando ci passa del tempo insieme; si è separato dalla sua ragazza, è palese, e ogni fine settimana va a trovare sua figlia, e mette le foto, lui e la sua bimba, ma si vede che un giorno qualcosa è andato storto, con la sua ex, perché invece che mettere le foto della bimba, ha scritto, lui, su Facebook: “Facevi schifo come compagna, fai schifo come donna e fai schifo come mamma. Muori merda. #soldiepauramaiavuti”.
Nello spogliatoio, a calcio, era il più peloso di tutti. Sotto la doccia cantava e usava una quantità di sapone indicibile, faceva una schiuma della madonna. Era uno che quando gli parlavi, se gli dicevi qualcosa di scomodo, o ti tirava un calcio sugli stinchi o girava la faccia nel vuoto. Soldi e paura mai avuti, lui.
Poi abbiamo parlato anche della “seconda mandata”. Niki ha detto che adesso, nel giro di poco, ci sarà il secondo giro, quelli che si mettono insieme verso i trenta e sfigliano entro i 35. In effetti, ci pensavo, mio babbo ha fatto così. Si è sposato a 32 anni. Mia mamma però ne aveva 23. Furbo mio babbo. La seconda mandata l’ha presa al volo, mio babbo. Si vede che anche lui e i suoi amici ne parlavano di queste cose. Sta’ a vedere che faccio la stessa fine, ho pensato. Non lo so e non lo voglio sapere. Neanche Niki lo vuol sapere.
Per adesso ci basta sentire questo silenzio, che è incredibile, qui, sul suo terrazzo, non si sente niente, i contorni delle colline son netti, fa un po’ freddo, le luci qua e là, non una voce. Il tempo sembra fermo. E invece no, non è fermo, il tempo, col cazzo che sta fermo…

La tua lettera

Caro Nikandr Andreevič,
ho ricevuto la tua lettera e ho capito subito che era tua. All’inizio avevo pensato che magari non fosse tua, ma quando l’ho aperta ho capito subito che era tua, mentre prima avevo pensato che magari non fosse tua. Sono contento che è già un po’ che ti sei sposato, perché quando uno si sposa con quella con cui si voleva sposare, vuol dire che ha ottenuto quello che voleva. Per questo sono molto contento che ti sei sposato, perché quando uno si sposa con quella che voleva, vuol dire che ha ottenuto quello che voleva. Ieri ho ricevuto la tua lettera e ho pensato subito che era tua, poi ho pensato che sembrava che non fosse tua, l’ho aperta, ho guardato, era proprio tua. Hai fatto proprio bene a scrivermi. Prima non mi scrivevi, poi tutto d’un tratto mi hai scritto, anche se anche prima, prima di non scrivermi per un po’, tu m’avevi scritto. Subito, appena ho ricevuto la tua lettera, ho deciso subito che era tua, e poi sono molto contento che ti sei già sposato. Perché se uno ha voglia di sposarsi, bisogna che si sposi e basta. Per questo sono molto contento che tu, alla fine, ti sei sposato proprio con quella con cui ti volevi sposare. E hai fatto proprio bene a scrivermi. Sono stato molto contento quando ho visto la tua lettera, e ho perfino pensato subito che era tua. A dir la verità, mentre l’aprivo, ho pensato che magari non fosse tua, ma poi ho deciso che era tua in ogni caso. Te ne ringrazio molto e sono molto contento per te. Tu, forse, non sai spiegarti perché sono così contento per te, te lo dico subito, sono contento per te perché ti sei sposato, e proprio con quella con cui ti volevi sposare. E è proprio bene, sai, sposarsi proprio con quella con cui ci si vuole sposare, perché così si ottiene quello che si vuole. Ecco perché sono così contento per te. E sono contento anche che mi hai scritto una lettera. Fin da subito avevo deciso che la lettera doveva essere tua, l’ho presa in mano e ho pensato: e se per caso non è tua? Poi ho pensato: ma no, certo che è tua. Apro la lettera e intanto penso: è tua o non è tua? È tua o non è tua? Bè, come l’ho aperta, l’ho visto subito, che era tua. Sono stato molto contento e ho deciso di scriverti anch’io una lettera. Ho molte cose da raccontarti, ma non ho proprio tempo. Quello che ho potuto, te l’ho scritto in questa lettera, il resto te lo scriverò un’altra volta, adesso non ho più tempo. Intanto, è un bene che mi hai scritto una lettera. Adesso so che è già un po’ che ti sei sposato. Anche dalle lettere precedenti, sapevo che ti eri sposato, e adesso lo vedo ancora: è proprio vero, ti sei sposato. E sono molto contento che ti sei sposato e che mi hai scritto una lettera. Subito, appena ho visto la tua lettera, ho deciso che ti eri sposato un’altra volta. Bè, ho pensato, è un bene, che ti sei sposato un’altra volta e che me l’hai scritto in una lettera. Scrivimi adesso com’è la tua nuova moglie e come sono andate le cose. Salutami la tua nuova moglie.

Daniil Charms
25 settembre e ottobre 1933
da Disastri

Lingue

Son stato cattivo, a pensarci, mi sono comportato male, potevo essere più morbido, parlare meno, e invece ho esagerato, l’ho spaventata, alla poverina. Le ho detto una roba che è stata come una bomba, per lei, e si è tutta rannicchiata, sulla sedia, col mento in sotto, le braccia conserte, e mi guardava da sopra gli occhiali, la bocca stretta, non ha risposto niente, per un po’. Silenzio… Poi si è tirata su, mi ha fatto un sorriso e ha detto:
«Vabbè, comunque l’amore è cieco».
Ancora con questa storia dell’amore cieco? Io non ci credo. E poi cosa vuol dire, l’amore è cieco? A me sembra che l’amore ci vede bene, benissimo, e che vede tutto, è intuitivo, ti batte sul tempo, tac, e ci arrivi dopo a capirlo, che ti sei innamorato.
L’amore non è cieco, l’amore vede oltre i muri. Vallo a dire ai ciechi, che l’amore è cieco. Ti ridono in faccia. Perché quando uno s’innamora, se è cieco, io son sicuro che per un po’ di tempo si scorda di essere cieco, e gli sembra di vedere tutto. Ciechi sono i presuntuosi che vogliono star da soli a tutti i costi, quelli sì che sono vicoli ciechi. L’amore è un’alba vista dal tetto di un grattacielo, in due.
Comunque, stavo dicendo, lei mi fa: «Vabbè, l’amore è cieco». La capisco, l’ha detto per cambiare discorso, per difendersi, perché l’avevo messa in difficoltà, e allora ha detto la prima roba che le è venuta in mente e ha sviato. È stata colpa mia, son stato io che le ho fatto dire che l’amore è cieco. Mi devo scusare. Ma lì per lì, non so, i suoi occhi, i suoi capelli, le sue braccia conserte, era tutto il pomeriggio che la guardavo, e mi chiedevo: “Ma è bella o non è bella?”.
Mi sporgevo un po’ avanti, per vederla, profilo destro e sinistro, volevo capire, e dopo ho deciso che sì, era bella. E poi era buona, ascoltava, mi ha raccontato che ha fatto un viaggio nel Vietnam, un anno e mezzo, da sola, e adesso abita nel Brennero, sui greppi, col suo moroso, un tedesco, che l’ha conosciuto in Vietnam… Stanno là in montagna, d’inverno sciano, ha detto che quest’inverno ha sciato un sacco, e poi fanno le robe che si fanno al freddo, tipo cucinare il riso al radicchio, e un po’ le manca la vita della città, però il tempo, diceva, il tempo in montagna è tutta un’altra cosa…
Aveva voglia di giocare con me. Siamo andati a vedere un monumento, una roba d’arte contemporanea, che c’erano due statue che trasportavano una canoa ribaltata, con la testa sotto la canoa, e siamo andati insieme, anche noi, con la testa sotto la canoa, è stato bello, non ci vedeva nessuno, io e lei, sotto la canoa, nel buio, lei ha riso, io la guardavo negli occhi, così.
Ma ho sbagliato, ho sbagliato tutto. È successo dopo, quando siamo andati a mangiare, al buffet, con gli altri, che parlavano delle lingue, di chi ha studiato lingue, che le lingue sono una roba che le odio, io, mi dà fastidio solo sapere che esistono, l’inglese, non c’è roba che mi annoia di più delle lingue, e lei ha tirato fuori la sua carta d’identità in doppia lingua, italiano e tedesco, perché si è trasferita nel Brennero, e addirittura gliel’hanno fatta verde, la carta d’identità, non marrone, verde.
E poi ha detto che lei, se avesse una figlia, forse, anche se non è tanto d’accordo sulla divisione delle scuole in scuole italiane e scuole tedesche, la manderebbe alla scuola tedesca, sua figlia.
Io stavo lì, annuivo, le davo attenzioni, intanto pensavo a quelle due righe di Thoreau, che mi son rimaste impresse, quando dice: Se vuoi imparare a parlare tutte le lingue e abituarti ai costumi di tutte le nazioni, se vuoi viaggiare in luoghi dove gli altri viaggiatori non giungono, essere abituato a tutti i climi e far sì che la Sfinge sbatta la testa contro una pietra, obbedisci al precetto del vecchio filosofo ed esplora te stesso. Questo sì, richiede occhio e nervi saldi. Parti ora per quella più lontana via dell’Occidente che non s’arresta al Mississippi o al Pacifico, né conduce verso una Cina o un Giappone usurati, ma conduce, su una tangente a questa sfera, d’estate e d’inverno, di giorno e di notte, al tramonto del sole e della luna, e infine, della Terra.
E poi, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, ha detto che lei, a casa, col suo moroso tedesco, conosciuto in Vietnam, parlano in inglese. Son scoppiato. Ho detto:
«Cosa?».
Lei ha detto:
«Sì», orgogliosa.
«Sì cosa», le ho detto. «Fai davvero?».
E lei:
«Perché? Problemi?».
Allora l’ho presa larga, ho detto che io le lingue, non so, c’è gente che sa sette lingue ma parla per frasi fatte, ho detto, che è brutto, e lei si è fatta seria, mento in sotto, come dicevo, indietro con la schiena, e l’unica cosa che è stata buona di dire è stata:
«Vabbè, comunque l’amore è cieco».
Io pensavo ancora a quel passo di Thoreau, fortuna che è esistito Thoreau.
Dopo abbiamo continuato a mangiare, ma si era rovinato qualcosa, non c’era modo di rimediare, mi è dispiaciuto, ho esagerato, le ho fatto male, le ho messo in discussione una roba che per lei andava bene, non aveva dubbi.
Io non voglio parlar male di nessuno. Per carità. Ma come si fa? Cosa c’è di bello in una famiglia fatta così, una ragazza italiana che si è trasferita in montagna perché ha conosciuto un tedesco mezzo turco in Vietnam, tra loro parlano inglese e vogliono una figlia da mandare alle scuole tedesche… Mi viene il mal di mare. Che bisogno c’è?
Se la rivedo, giuro, faccio il bravo, la tratto bene, ci parlo io, in italiano; sento la missione di farla ragionare, le caccio due tre frasi a effetto e se torniamo là, a vedere quel coso d’arte contemporanea, con le due statue che tengono su la canoa, se ci andiamo sotto, se ci torniamo insieme, le vado vicino, giuro, ci provo, le tiro su il mento, le metto una mano sulla guancia, la guardo negli occhi, e provo a tirar fuori la lingua, per vedere se capisce, io, che lingua parlo.