Impara

Impara ad affliggerti, che di godersela anche i coglioni sono capaci.
Venedikt Erofeev

Rinuncia

È un periodo, questo, mio, individuale, intendo, che secondo me doveva essere diverso, invece sta venendo avanti un periodo di rinuncia che io rinunciare, non son capace, non rinuncio mai, allora sbatto dappertutto, non va bene.

Si rompano

Il fatto che le cose si rompano da sole e all’improvviso lo inquietava molto, da sempre. Come ha fatto questo cavetto a spostarsi, a fuggire? E la vite, perché ha ceduto? C’è stato un preciso momento prima del quale tutto funzionava e dopo il quale non funzionava più niente?

da La meravigliosa lampada di Paolo Lunare
di Cristò
(TerraRossa, 2019)

È bello

Son sceso sotto casa, a prendere due casse d’acqua alla drogheria, Ciao capo, gli ho detto, al pakistano, Ciao maestro, ha detto lui, Due Rocchetta, gli ho detto io, Come andiamo?, mi ha chiesto, Eh, così così, ho detto, Perché, così così?, ha detto lui, Eh, io d’inverno faccio un po’ fatica, ho detto, Perché, fatica?, mi ha chiesto, Eh, perché, non lo so, non c’è mai il sole, Sole? ha detto lui, Eh, il sole, ho detto, Ma no, che è bello!, ha detto lui, Cosa è bello?, gli ho chiesto, Pioggia, freddo, tempo grigio, è bello!, ha detto, e ha alzato le braccia, come per festeggiare, io dopo sono uscito dalla drogheria con le due casse d’acqua, ho guardato il cielo, ho pensato: c’ha ragione lui, è bello.

Il divoratore

Ecco il pensiero, il divoratore.
Stando fermi lo si può lisciare
e pettinare e farlo stare giù
steso e sospeso e riposto e composto
e un po’ arretrato
in sottofondo – depotenziato –

da Le giovani parole
di Mariangela Gualtieri
(Einaudi, 2015)

L’endotico

I giornali parlano di tutto tranne che del giornaliero. I giornali mi annoiano, non mi insegnano niente: quello che raccontano non mi riguarda, non mi interroga e tantomeno risponde alle domande che faccio o vorrei fare.
Quello che succede davvero, quello che viviamo, il resto, tutto il resto, dov’è? Quello che succede tutti i giorni e che torna a succedere ogni giorno, il banale, il quotidiano, l’evidente, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale, come renderne conto, come interrogarlo, come descriverlo?
Interrogare l’abituale. Ma, appunto, ci siamo abituati. Non lo interroghiamo, non ci interroga, non ci sembra costituisca un problema, lo viviamo senza pensarci, come se non veicolasse né domande né risposte, come se non contenesse nessuna informazione. Non è nemmeno più un condizionamento, è l’anestesia. Dormiamo la nostra vita di un sonno senza sogni. Ma dov’è, la nostra vita? Dov’è il nostro corpo? Dov’è il nostro spazio?
Come parlare di queste “cose comuni”, o, piuttosto, come braccarle, come stanarle, come staccarle dal pietrisco nel quale sono inglobate, come dar loro un senso, una lingua: che parlino, infine, di quello che è, di quello che siamo.
Forse di tratta di fondare, finalmente, la nostra antropologia: quella che parlerà di noi, che cercherà, dentro di noi, quel che abbiamo sottratto, così a lungo, ad altri. Non più l’esotico, ma l’endotico.
Interrogare quello che sembra talmente evidente che ne abbiamo dimenticato l’origine. Ritrovare qualcosa dello stupore che potevano provare Jules Verne o i suoi lettori davanti a un apparecchio capace di riprodurre e trasportare i suoni. Perché è esistito, quello stupore, con migliaia di altri, e sono loro che ci hanno plasmato.
Quel che bisogna interrogare sono i mattoni, il cemento, il vetro, le nostre maniere a tavola, i nostri utensili, il modo in cui passiamo il tempo, i nostri ritmi. Interrogare quel che sembra aver smesso per sempre di stupirci. Viviamo, certo, respiriamo, certo; camminiamo, apriamo porte, scendiamo scale, ci sediamo a un tavolo per mangiare, ci corichiamo in un letto per dormire. Come? Dove? Quando? Perché?

da L’infra-ordinario
di Georges Perec
(Bollati Boringhieri, 1994)

Ma mi piaceva tanto

Abbiamo riso ancora. Era pallida e con le labbra screpolate, ma mi piaceva tanto. Da sotto il tavolo ci siamo toccati coi piedi. Siamo rimasti così per qualche secondo. Poi ha detto: «Andiamo a letto?».

 

da Le cose di Benni
di Gianmarco Perale
(Rizzoli, 2021)

Il cuore

Mi han telefonato i miei, stamattina, e mentre parlavo con mio babbo, che era fuori di casa, ho sentito da sotto la voce di Haoran, un bambino di nove anni, cinese, che siam stati molto amici, due anni fa. Me l’ha passato, mio babbo. Come stai?, mi ha chiesto Haoran, Bene, gli ho detto, Te?, Bene, ha detto lui, E quando ritorni? Non lo so, gli ho risposto, e dopo gli ho chiesto se era stato alle giostre, che adesso a Santarcangelo c’è la fiera di San Martino, Sì, mi ha detto Haoran, Ho fatto l’autoscontro, il brucomela, e delle altre che non ho capito, non parla benissimo, delle volte non si capisce. Dopo ci siam salutati, e ho chiuso la telefonata, e mi son sentito il cuore pieno, per un momento, che mi son dovuto sedere e ho pensato: che roba, il cuore.
E oggi, a me, di tutto il resto, non me ne frega un cazzo di niente.

Mi piace

C’è della gente, di quelli che leggono, e che scrivono, e che in generale gravitano nel settore della letteratura italiana, che io, quando gli dico l’editore che mi pubblicherà, il prossimo anno, loro fanno delle espressioni, sgranano gli occhi, e aprono la bocca, che gli si legge in faccia che pensano: ma come fa, questo qui, a pubblicare per quell’editore? Ma chissà cos’ha scritto. Ma guardalo lì, non ha mica la faccia di uno che può pubblicare per quell’editore. E io, ho sempre l’impressione che resteranno delusissimi, quando leggeranno il mio romanzo, se lo leggeranno. E l’idea di provocare una certa delusione in giro, devo dire, mi piace.